DELITTO CA’ DE SALADA
L’Archivio Storico di Finale Ligure ci porta a conoscenza di un altro fatto delittuoso accaduto nel nostro paese nel 1653. Un funzionario di giustizia durante una perquisizione in una casa viene brutalmente ucciso con sedici colpi di “picozzino” dal proprietario.
Riferisce Danello de Bonetti Baricello (capo della polizia) dell’uffitio criminale qualmente ha inteso da Pietro Massa quondam (fu) Giacomo della villa di Calice che nella detta villa è stato dato molte picozzinate sopra la testa a Bartolomeo Vendersio, fameglio (persona agli ordini del Baricello, fante) di questo uffitio da Nicolao Bastardo quondam Battista di detta villa in atto che il detto Bartolomeo d’ordine del signor Capitano di Giustizia (magistrato supremo del Finale), voleva circa l’hore diecinove in venti (ore 19 e 20, cioè 5 o 4 ore prima del tramonto – ore 24) di detto giorno intrare in casa di detto Nicolao Bastardo a farli una perquisitione et che il detto fante sta male, et quasi morto, che perciò ne da parte acciò si procedi come di ragione, et così incontinenti.
“Si andai io, Giovanni Paolo Poma (per ordine del Capitano di Giustizia) come notaio e coadiutore nella visita da farsi nel paese di Calice, ed esattamente nella contrada detta DE SALADA. E arrivato dove sopra specificato, in un piazzale fu visto et trovato il detto Bartolomeo Vendersio riverso in terra con il viso inzuppato di sangue e con la testa interessata dalle seguenti ferite e precisamente di sedici ferite distinte in più parti della testa di detto visitato e di un’altra sopra il collo, quali e quante si può indicare mortali fatte da arma da taglio. E presso lo stesso ferito fu trovata una scure chiamata in dialetto picozzino che fu consegnato al detto Baricello allo scopo di etc…”
(si interroga poi come teste Pietro Massa fu Giacomo) che dichiara che dopo pranzo stava “merendando et mangiando un poco di insalata” in compagnia di Bartolomeo Vendersio “famiglio in casa et osteria di Antonio Di Berti di Carbuta, habitante in detta villa di Calice” quando arrivò Maria, moglie del fu Antonio Cesio con una licenza del Capitano di Giustizia che ordinava “di fare perquisizione in casa di Nicolao Bastardo quondam Battista d’una roba o sian robe che l’erano state prese, qual Maria ha detto al sudetto Bartolomeo fante se voleva andare a fare detta perquisitione in casa di detto Nicolao. Alla quale ha risposto sì. Et restando io creditore del sudetto Nicolao di soldi sette, come esattore di una lista (tassa riguardante un numero particolare di persone) del nostro capelano, gli ho detto al detto fante che sarei andato ancor io, et così siamo partiti: cioè detto fante, io, e detta Maria. Et andati alla casa di detto Nicolao, dove giunti cioè in strada, presso la porta del piazzale, il sudetto Nicolao ha detto a me che se ci andavo per esigere i detti soldi non facesse spesa che me l’haveria, et così subito mi sono contentato; però il detto fante gli ha risposto che voleva intrare in casa sua d’ordine del giudice, e ricercare non so che, et il detto Nicolao gli ha risposto che non voleva che entrasse. Il che inteso dal detto Bartolomeo, ha cominciato a voler aprire la porta del piazzale, e mentre l’apriva, il sudetto Nicolao è entrato più presto che lui in detto piazzale, et poi in una sua stanza che resta a piano di detto piazzale, ha dato di mano a un picozzino col quale, mentre il sudetto Bartolomeo voleva entrare in detta casa, gli ha dato diversi colpi sopra la testa senza dir niente, e l’ha ferito malamente, come ho visto, con grandissima effusione di sangue, et in tal atto è cascato sopra la porta di detta stanza, quasi tutto dentro, et continuandogli sempre a dargli con detto picozzino, l’ha trascinato et gittato fuori in detto piazzale dove hora disteso.”
(il teste prosegue dicendo che a questo punto, temendo pure lui di essere colpito, si nasconde presso una casa lì contigua). “Et poco dopo ho veduto il sudetto Nicolao che aveva preso il schioppo da focile che aveva detto Bartolomeo fante, e che scappava et fuggeva per queste fasce”. (E subito il teste corre al borgo a denunciare il fatto in “Curia” cioè in tribunale all’ufficio del Baricello). Vengono interrogati come testimoni oculari anche la Maria vedova Cesio già nominata, Caterina Siccardi, zia del Nicolò Bastardo, e Angela Salada cognata. (probabilmente SALADA non è il cognome ma il soprannome. In successivi interrogatori i vari parenti vengono detti quelli di Salada.) La Maria riconosce il “picozzino” che le viene mostrato in tribunale, come quello usato dal Nicolò. Segue la perizia del medico legale che descrive minuziosamente le sedici ferite e dichiara che almeno nove possono essere mortali. Nel frattempo il ferito era stato soccorso, ma non aveva detto altro se non “lasciatemi stare per l’amor di Dio”, sempre con gli occhi chiusi. Il Baricello aveva disposto il suo trasporto all’ospedale di Finale per essere lì curato. Dopo pochi giorni però muore a casa sua, o meglio, della moglie figlia di Antonio Bosio. Il solito notaio verbalizza che era deposto in casa, sopra un cassone al primo piano “in capo ad una scala” vestito nel modo seguente “un berettino in testa di tela bianca, un camixio (camicia da notte) di tela bianca, camixia e mutande parimente di tela bianca et un paro di calzette bianche di filo in gambe senza scarpe”. La moglie, in seguito interrogata, riferisce che in un breve momento di lucidità era riuscito a dirle che l’aveva colpito a Calice Nicolò Bastardo. E aggiunge di aver saputo che il Nicolò, fuggito a Pietra, aveva venduto il fucile preso al marito al fondino della Pietra (fonditore di metalli) e che quell’arma costava non meno di 30 lire. Chiede poi che si faccia giustizia.
Si sentono vari testi, si dà mandato di cattura per Nicolò Bastardo che è latitante e più volte il Baricello con li birri si apposta in Calice dove si dice si nasconda il ricercato, ma senza risultato.
Lunedì 6 Dicembre 1653 (terminato il processo) Il Capitano di Giustizia don Alfonso de la Peña (siamo sotto il Regno di Spagna) pronuncia la seguente condanna in contumacia, definitiva, seduto sulla cattedra davanti alla porta del Tribunale Criminale del Finale “premisso sono tubae”, dopo i rituali squilli di tromba.
“l’abbiamo condannato e lo condanniamo alla pena della forca, in modo tale che in qualunque tempo futuro, se mai giungerà in mano alla giustizia venga condotto nel luogo solito delle esecuzioni venga appeso alla forca con una corda finché muoia di morte naturale. E in oltre l’abbiamo condannato e lo condanniamo alla confisca dei beni in favore della Regia Camera, e lo abbiamo bandito e lo bandiamo da tutto il territorio del Marchesato del Finale e delle Langhe”.
Copia della sentenza viene affissa nei soliti posti del Borgo, e presso la casa del condannato, dal pubblico banditore, e dopo la sua lettura “ad alta et inteleggibile voce” e dopo i soliti squilli di tromba.
Anni dopo la moglie del condannato inoltra domanda di grazia presso il re di Spagna e dopo lungo iter burocratico (con relazioni, dichiarazioni, lettere, etc…) in data 10 Dicembre 1672 arriva al Capitano di Giustizia, perché lo esegua, il regio indulto che stabilisce che il Nicolò Bastardo, graziato: “NON ESSE ULTERIUS MOLESTANDUM” cioè “NON DEBBA PIÙ ESSERE INFASTIDITO” dalla giustizia.
Documenti conservati nell’Archivio Storico di Finale Ligure: Curia Civile Criminale 09-496, 09-822. Collaborazione di don Caneto |